Il silenzioso addio di Fabio Grosso, ora libero di accasarsi al Verona, non ha stupito nessuno. Da tempo era noto che il rapporto tra il tecnico e la società, nonostante un contratto fino al 2019, fosse ai minimi storici. Varie le cause: dall'assenza di progettualità, risorse e strutture adeguate al raggiungimento di obiettivi importanti, alla penalizzazione last minute che ha costretto i biancorossi a disputare lo spareggio play-off in posizione d'inferiorità rispetto a quanto conquistato sul campo (e che a conti fatti ha decretato l'eliminazione, ndr). Grosso lascia Bari e la Puglia senza una parola di commiato, non tanto verso la stampa con cui già da due mesi aveva chiuso i conti, ma verso quei tanti tifosi che dallo scorso 13 giugno avevano mostrato fiducia, e in molti casi affetto, nei confronti di uno dei principali protagonisti di Germania 2006. Almeno loro un saluto e un ringraziamento, per aver sempre sostenuto tecnico e squadra, lo meritavano. Nulla di tutto ciò è accaduto. Non che i supporter biancorossi si stiano strappando i capelli, visto che al momento i problemi sono ben altri, ma anche in un mondo ingessato come quello del calcio, in cui la fanno da padrone, a livello d'immagine, ovvietà e frasi fatte ci sono dei riti ai quali sarebbe bene non rinunciare.
ADDII AMARI - Grosso va ad aggiungersi alla sempre più lunga lista di allenatori che per un motivo o per l'altro non sono riusciti ad incidere a Bari (sei solo negli ultimi quattro anni). E che non vedevano l'ora di andarsene. L'ultimo in ordine di tempo era stato Stefano Colantuono. Si dice che quando le cose vanno male il primo a pagare sia sempre l'allenatore. E' vero. Ma è altrettanto vero che chi siede sulla panchina biancorossa deve fare i conti con una serie di problematiche extracampo, a volte sottovalutate, che possono mettere a dura prova la bontà del suo operato. Le competenze tecnico-tattiche e la qualità della rosa contano ma conta anche il poter svolgere il proprio lavoro nelle migliori condizioni possibili. Per Grosso, reduce dall'esperienza con la Juventus, il club più titolato e meglio organizzato d'Italia, l'impatto con il club pugliese è stato devastante, in senso negativo.
MANCA TUTTO - Bisogna partire da un dato di fatto che fa male ma è incontestabile. Bari, calcisticamente parlando, è il terzo mondo. Manca tutto o quasi. Non c'è un centro sportivo in cui far allenare la squadra e curare lo sviluppo delle giovanili (che pure stanno ottenendo discreti risultati sotto la guida di Gennaro Delvecchio), lo stadio è in pessime condizioni e necessiterebbe di interventi urgenti. Le entrate a livello di merchandising sono scarse e con i soli diritti tv (problema comune a quasi tutti i club della Penisola) non si può tirare avanti. Le ultime tristi vicende dimostrano che ne Paparesta prima, ne Giancaspro poi, nonostante i cospicui investimenti sono riusciti a mettere in sicurezza la società. Tutto è stato fatto per cercare di raggiungere il prima possibile la massima serie e mettere a bilancio i 25/30 milioni derivanti dai diritti tv. Dopo quattro anni la serie A è rimasta una chimera e l'unica cosa che è cresciuta sono i debiti. Tra pochi giorni sapremo se il Bari riuscirà ad andare avanti o meno. Restano i tifosi, l'unico patrimonio tangibile, che continuano a seguire la squadra nonostante le delusioni, ma è chiaro che a lungo andare, se non dovessero esserci prospettive, il numero di presenze al San Nicola e in trasferte è destinato a calare.
PUNTA PEROTTI - La crisi del Bari ha origini lontane e parte col nuovo millennio ed è stata in parte scatenata da eventi che nulla hanno a che vedere con il mondo del pallone. Al termine della stagione 2000-01 il club retrocede in serie B. Nello stesso periodo la famiglia Matarrese subisce il pesante contraccolpo economico della vicenda di Punta Perotti. Sarà lo stesso Vincenzo Matarrese anni dopo ad ammettere che se non fosse stato per la cessione di Cassano (venduto alla Roma per la cifra record di 60 miliardi di lire), le conseguenze per le aziende del gruppo sarebbero state ancor più pesanti. La compressione dei bilanci dovuta al doppio colpo retrocessione più crisi economica costrinse la società a mantenere un basso profilo. Per i successivi sette anni le spese vennero ridotte al minimo indispensabile ed il Bari rimase invischiato nella lotta per non retrocedere in serie C. I galletti ci finirono pure nella terza categoria professionistica al termine della stagione 2003-04 ma riuscirono a sfangarla per un soffio, grazie al ripescaggio in virtù dei fallimenti di Napoli e Ancona. Questa serie di risultati negativi minò definitivamente il rapporto tra i Matarrese e la piazza e la squadra disputò interi campionati di fronte a pochi intimi e in un clima di contestazione permanente. Il biennio d'oro 2008-2010 con Conte e Ventura, guidati dalla sapiente regia di Perinetti, ricompattò l'ambiente ma ormai i Matarrese non avevano più né la volontà né la disponibilità economica di un tempo. L'addio di Perinetti fu il preludio al ritorno tra i cadetti. Il resto è storia nota.
PLUSVALENZE - L'emblema della crisi attraversata dal club pugliese è proprio il settore giovanile, che negli anni novanta aveva raggiunto risultati di rilievo ed aveva permesso di ottenere preziose plusvalenze grazie alla cessioni di Bigica, Amoruso, Ventola e per ultimo Antonio Cassano. Non è un caso che dopo il Pibe de Bari non siano venuti fuori altri talenti. Ed anche chi sembrava lanciato verso una carriera importante (Ennyinaya, Sibilano, Bellavista, i due Anaclerio, Cardascio, La Fortezza) non è poi riuscito a mantenere le aspettative. Gli unici gli anni successivi ad ottenere discreti risultati sono stati Eramo, Bellomo, Grandolfo e Galano ma le loro carriere ad oggi non sono certo paragonabili ai calciatori di cui sopra. Eppure le potenzialità per lavorare in prospettiva ci sarebbero eccome. Ma senza un progetto basato su competenze, risorse e rinnovamento tutto diventa più difficile. E il Bari rimarrà sempre lì, frustrato tra velleità di grandezza e un futuro tutt'altro che roseo.
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